È così che va stasera: la malattia.

{ Egon SchieleSitzender männlicher Akt }

 

Con braccia che stringono un corpo malato, vorrei poter abbracciare te

 

per annullare il divario

della morte che ci separa.

 
 

Rannicchiati in un guscio di carta pesta,

scorgiamo le stelle splendere in un impeto di fantasia:

la notte ci ripara,

il guscio

paradossalmente

ci separa.

 

Iniettati di sangue sono gli occhi di questa madre che mi chiama,

che piange sulla tomba di un bambino

mai avuto

che trema in un inverno mai passato

che grida con una voce

il cui eco

 

– mai perduto –

mai ha raggiunto la montagna di noi due.

 

Una spiaggia,

il calore febbrile della sabbia,

le fredde profondità di un’onda che sfiora la riva,

una barca in lontananza,

una me aggrovigliata da confezioni di lattine,

un’aria putrida, viscida,

che giunge alle narici,

che schiavizza il cuore,

che schifa l’anima biancastra densa d’odio,

che vola e sfugge

e cerca

un malsano che da amare.

 

Una febbre

un deserto

delle mani al ventre:

ossa, mie ossa,

debolmente cigolano richiamando la tua carne.

 

Mani,

mie mani,

non sento altro se non il mio,

se non l’io

di una personalità bruciata.

 

Mani, le tue

sono ovunque mancanza

di un tocco letale

di uno spirito gentile

di un corpo

chissà se tuo.

 

Scorre sangue sulla scia delle lacrime grigie: un mare porpora ti ricopre e svanisci dalla mia vista.

 

Non mi chiami, non mi guardi: un volto indifferente fissa naturalmente la sua nuova condizione, un volto stanco chiude gli occhi e sogna il mare.

 

Mare azzurro

naturale,

mare origine

di quel primitivo amore

ora diventato

malattia:

ti scorgo da lontano

senza avvicinarmi.

 

Mare,

dove ci porti?

Porti lontani,

parti vicini;

porti vicino

parti lontane:

è questo quel che fai?

 

Sferza il vento i capelli,

il guscio crolla,

il mare rosso rimane nei tuoi occhi:

donami la malattia

e la morte,

donami la casa

di membra stanche.

 

Donami

se vuoi

un malsano bacio

uno sguardo porpora di lontani ieri

un sorriso infetto di antichi ricordi.

 

Le braccia cadenti accarezzano il corpo:

mie

non tue

desiderano altro;

labbra, non bocca,

mie, non tue,

desiderano altro:

desiderano bere quel rosso dei tuoi occhi

desiderano un corpo

da mordere

squarciare

rompere

ed amare.

 

La tua malattia sarà

non morte

ma vita:

non tua,

la mia.

 

Abbandona il guscio,

non tacere alla notte il tuo ricordo:

ascolterò nascosta

e righerò di lacrime la giungla

dei tuoi amori:

dimenticali,

non dimenticarmi.

 

Piangerò nel diurno silenzio

la tua taciturna indifferenza,

per potermi cibare nella confusione della notte

della tua innata vitalità:

desidero amarti

come l’uomo ama dio

come dio ama dio

come solo io

so amare.

 

Ammalami della tua memoria:

ridammi il guscio,

lasciami i pensieri d’uragano che invadono le pareti,

torna nuovo e torna vecchio.

 

Sigilla lo sguardo a terra,

ricordati del fuoco delle febbri,

ricordati dell’amaro del mio tocco.

 

Ammalami e ricordami

come quella vita a cui hai dato vita

donando la malattia.

 

Vivi nel marchio del mio dolore.

Lasciami star bene

in questa sporcizia

pregna di dolcezza.

 

Ariela Hyso, sabato 22 febbraio 2014, ore 01:10.

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